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Il Pranayama non è (solo) una tecnica


Quando si parla di Pranayama spesso ci si riferisce a una serie di esercizi di respirazione che fanno parte della pratica Yoga e che prevedono l’utilizzo di una serie di tecniche attraverso le quali il respiro viene condizionato in vari modi.

Limitarci però a pensare al Pranayama come a un’insieme di tecniche, oltre a essere estremamente riduttivo, rischia di allontanarci dal suo significato profondo.

Pranayama è la percezione del continuo pulsare della vita, del continuo scambio di energia tra noi e l’ambiente che ci circonda.

Ridurre questo concetto a «esercizi respiratori» o «controllo del respiro» ci porta a considerare il respiro come qualcosa di separato da noi, provocando una sorta di dissociazione dal respiro stesso, quando Pranayama è soprattutto unione con esso.


Il termine Pranayama è composto da pran - ayama.

Prâna è l’insieme di tutte le energie che animano l’universo e che si manifestano in ogni luogo e in ogni momento, in forme sempre differenti. È in realtà una sola energia che appare in molteplici forme e funzioni.

Prana è anche la forza che sostiene ogni essere vivente. Spesso è definito soffio vitale, e viene assorbito dagli organismi principalmente attraverso il respiro, ma anche attraverso il sole, il cibo, il vento…

A-yama significa “controllo”, ma anche “lunghezza”, “espansione”.

Pranayama può dunque essere tradotto con “espansione dell’energia vitale” ma anche “non dispersione, controllo dell’energia vitale” e praticarlo significa “fissare” “concentrare” l’energia vitale che ci attraversa.


Patanjali, negli Yoga-sutra (2, 49-51), descrive il Pranayama come l’afflusso e l'efflusso controllati del respiro in una posizione stabilita saldamente, attraverso cui la forza vitale è attivata e regolata, calmando l’attività della mente e predisponendola alla concentrazione.

Pranayama costituisce il quarto anga dell’Ashtanga Yoga di Patanjali, ed è conseguenza naturale di Asana (terzo anga), attraverso cui rendiamo stabile il corpo e ci prepariamo a una sensibilità più sottile.

Il Pranayama è menzionato anche nella Bhagavad-gita, ma né questa né gli Yoga Sutra contengono una dettagliata descrizione di come deve essere praticato; per questo bisogna consultare i testi dello hatha-yoga e alcune Upanishad tarde, denominate Yoga-Upanishad.


Per arrivare al controllo del Prana però si deve passare per stadi graduali, il primo dei quali è la consapevolezza del Prana.

Come possiamo controllarlo se non sappiamo percepirlo?

Il veicolo principale del Prana è il respiro, dunque il principale strumento del Pranayama è la respirazione, che non è una tecnica, né un esercizio, ma una funzione naturale.

Il respiro costituisce un “ponte”, una ”interfaccia” tra diverse sfere della realtà.

Esso collega anzitutto interno ed esterno, organismo e ambiente: con l’inspirazione, infatti, l’aria diventa parte di noi infondendoci vita, per poi tornare con l’espirazione all’ambiente esterno. In questa circolazione di energia vitale, non è possibile determinare una netta separazione fra “dentro” e “fuori”, fra organismo e ambiente.

Nell’essere umano la respirazione può essere involontaria o volontaria, anche se è un processo inconscio per la maggior parte del tempo.

Dunque il respiro costituisce un ponte, una connessione anche tra altre due sfere della realtà: corpo e mente.

Quando ci avviciniamo alla pratica di Pranayama non dobbiamo dirigere la respirazione, dobbiamo piuttosto essere diretti da essa. Il respiro spontaneo è il ritmo della vita che scorre in noi e nell’universo, e tutta la pratica dello Yoga è entrare sempre più nell’esperienza di questa energia profonda. Quando ci sincronizziamo con questo ritmo regolare, quando respiriamo consapevolmente, il respiro può insegnarci a tornare al silenzio della mente; quando il mentale è integrato al nostro ritmo profondo, allora c’è meditazione.

L’aspetto fondamentale del Pranayama è quindi la pratica di consentire al respiro di muoversi liberamente, utilizzando l’osservazione consapevole del flusso come “esca” per catturare la mente e condurla alla quiete.

Mantenendo la consapevolezza al respiro infatti, alleniamo la mente a rimanere stabile e connessa all’esperienza del momento presente.

Anche se ci sono moltissime tecniche diverse di Pranayama, esercizi di respirazione per mezzo dei quali allunghiamo, abbreviamo, sospendiamo e tratteniamo il respiro, è necessario sottolineare che l’uso delle tecniche non è indispensabile e soprattutto non è sistematico. Non è la respirazione in sé a produrre dei risultati, bensì la coscienza, cioè la relazione della mente con la respirazione.

Solo quando questa relazione sarà stabile, quando si sarà capaci di liberare il respiro e di viverlo in consapevolezza, solo allora, eventualmente, le tecniche potranno aiutare ad accentuare gli effetti del Pranayama.


Il fondamento di tutte le pratiche yogiche di respirazione è la capacità di stabilire e conservare un ritmo respiratorio regolare e fluido, e applicare questa capacità alla vita quotidiana.

Quando iniziamo a praticare Yoga, e ci applichiamo nel portare la nostra attenzione al respiro, ci rendiamo conto della frequenza con cui lo tratteniamo. Limitare inconsapevolmente il respiro indica un tentativo inconscio di rifiutare o controllare l’esperienza che stiamo vivendo.

Dunque non è indispensabile imparare qualche stravagante tecnica respiratoria. Soprattutto all’inizio, può essere molto più utile notare semplicemente con quanta frequenza inibiamo il respiro, chiudendoci alla più elementare delle connessioni con l’universo; questo ci permetterà di rientrare di nuovo nel flusso della vita stessa.


La fase successiva sarà consentire a questo flusso di attraversarci permettendo al respiro di tornare a un ritmo fluido e regolare, esercitando la nostra capacità di adattarlo momento per momento alle situazioni.

Mentre pratichiamo gli asana amplifichiamo questo processo, generando un respiro regolare e ampio; quando ci ribelliamo alla scomodità di un muscolo rigido o di una posizione difficile, impariamo ad ammorbidirci, inspirando nella rigidità, ed espirando attraverso la difficoltà.

Quando nella meditazione sorge un’emozione che ci turba, impariamo a far spazio a quello che accade, lasciando che il respiro fluisca liberamente.

Il respiro consapevole ci insegna una cosa importante: se non possiamo controllare ciò che ci accade, possiamo controllare la nostra reazione; possiamo scegliere se aprirci o chiuderci, se ammorbidirci o irrigidirci.

Il Pranayama, come ogni pratica Yoga non si limita al tempo trascorso sul tappetino. Dobbiamo sempre tenere a mente che la pratica è un mezzo e non un fine, il fine è la vita. Se riusciamo a portare nella quotidianità ciò che impariamo sul tappetino, il Pranayama diviene, attraverso il controllo del respiro, un importante strumento per recuperare la calma e la lucidità nelle situazioni di tensione, che diversamente non sapremmo gestire in modo efficace.

Questo non significa necessariamente che smetteremo di sentirci tesi o ansiosi, e che i nostri problemi svaniranno; significa che grazie al respiro consapevole potremo osservare che i nostri sentimenti e le nostre emozioni sono nuvole passeggere che scorrono sul cielo limpido della nostra consapevolezza. Scopriremo allora che dietro ogni stato d’animo c’è un sfondo neutro al quale possiamo tornare, al quale possiamo appoggiarci nelle difficoltà.

Quindi se impieghiamo il tempo che passiamo sul tappetino per imparare a convivere con l’esperienza che facciamo, respirando e aprendoci a ogni nuova sensazione, piacevole o spiacevole che sia, poi avremo a disposizione questa capacità tutte le volte che ci scontreremo con le difficoltà della nostra vita.


Dunque il punto non è controllare il respiro o controllare la situazione, ma utilizzare la respirazione consapevole per richiamare alla memoria quel luogo dentro di noi che è sempre stabile. Il respiro allora, diventa un compagno che ci ricorda continuamente chi siamo davvero, permettendoci di accogliere le emozioni che ci attraversano senza identificarci con esse.


 
 

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