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Felici nonostante tutto: Santosha


Siete anche voi fra quelli che guardano alla felicità come a un obiettivo irraggiungibile? Tutti la cercano, tutti ne parlano, ma pochi l'hanno davvero conosciuta. E sono in pochissimi a poter dire di averne goduto a lungo.

Cos’è la felicità per voi? Cos’è che “fa felicità”? Nella cultura del nostro tempo si pensa che sia un un qualcosa legato ad aspetti prevalentemente materiali della vita; un qualcosa di esterno a noi.

E se fosse sbagliato il punto di partenza?

Proviamo a cambiare punto di vista, a pensare che la felicità non sia un premio o un trofeo da conquistare o meritare.

Sapete che il nostro cervello è in grado di “produrre” uno stato di benessere assimilabile alla felicità in ogni istante, secernendo serotonina ed endorfine, ormoni neuro-trasmettitori che hanno effetti profondi sul nostro umore.

Nonostante ciò, difficilmente riusciamo a mantenere questo stato in modo costante nel tempo, perché la felicità è un “picco” e, in quanto tale, difficilmente sarà uno stato permanente nella vita che è un flusso, un movimento continuo.


Perché ci sentiamo infelici?

Nella vita di molte persone sono soprattutto gli stati d'animo negativi a prevalere: molto spesso ci facciamo sopraffare da ansie e preoccupazioni che mettono le radici e "infestano", come erbacce, la nostra mente. Non siamo mai contenti, vediamo solo problemi e sentiamo costantemente il bisogno di ciò che non abbiamo. Siamo disposti ad adottare qualunque mezzo pur di soddisfare i nostri desideri; i momenti di felicità che viviamo sono quasi sempre legati all’ottenimento di qualcosa.

Finché la felicità resta legata al desiderio e al suo appagamento, saremo sempre condannati a ricadere nell’infelicità perché, una volta raggiunto lo scopo, ecco farsi avanti un altro desiderio da soddisfare, un altro obbiettivo da raggiungere. E con esso il senso di frustrazione per la nuova “mancanza”.


Il desiderio è causa di infelicità?

Non proprio. Il desiderio è un impulso alla vita che ispira al movimento e al cambiamento. È un concetto spesso (e ingiustamente) demonizzato negli ambienti spirituali.

Il desiderio non è una trappola. Piuttosto è il combustibile dell’azione. È quella potente energia che si muove dall’interno verso l’esterno e che, se ben direzionata, ha grandi potenzialità.

Il problema del desiderio non è la pulsione in sé, ma l’oggetto a cui lo associamo; e il nostro attaccamento ad esso.

Avere delle aspirazioni, fare progetti e impegnarsi per realizzarli nella vita, non solo è lecito, ma anche importante. Quando però l’ambizione ci spinge a desiderare il superfluo, a considerarlo indispensabile, non riusciamo più ad apprezzare ciò che abbiamo.


La felicità è assenza di problemi?

La felicità non dipende solo dalla realizzazione dei nostri sogni o dall’assenza di difficoltà; il senso di soddisfazione non è indissolubilmente legato a cause esterne.

Il più delle volte sono le condizioni che poniamo alla felicità a renderla irraggiungibile e a renderci insoddisfatti, sempre alla ricerca di qualcosa (o qualcuno) che possa finalmente renderci felici.

Se pensiamo che una vita piena sia il frutto di condizioni ideali e che saremo felici solo quando non incontreremo difficoltà e avremo tutto ciò che desideriamo, stiamo rimandando la felicità a un futuro utopico che potrebbe non arrivare mai.

E così l’infelicità diventa la norma che si sopporta; magari perché si è convinti di agire per raggiungere un fine superiore.


Yoga e felicità: la pratica di Santosha

La buona notizia è che è possibile fare esperienza di un senso di appagamento permanente, non condizionato dalle vicissitudini della vita. Per questo però bisogna prima di tutto avere l'atteggiamento giusto, perché non esiste un mondo perfetto senza conflitti, in cui ogni nostro desiderio viene appagato.

L’approccio cui mi riferisco si chiama Santosha (skt. संतोष saṃtoṣa), espressione che troviamo nello Yoga Sutra, testo fondamentale dello Yoga Classico.

Praticare Santosha vuol dire essere grati per ogni istante di pienezza che la vita ci offre e che la maggior parte di noi non è più capace di apprezzare.

Vuol dire accettare (e affrontare) le difficoltà, ma anche e soprattutto accettarsi.

Tradurre Santosha come tendenza ad “accontentarsi”, per vivere passivamente la vita occultando i problemi, è dunque un errore.

Al contrario, significa rimboccarsi le maniche, e abbracciare le difficoltà, impegnarsi ad affrontarle e superarle, senza permettere loro di impedirci di vivere in uno stato di pienezza e soddisfazione.


Da dove iniziare?

La pratica di Santosha non può prescindere dall’esperienza corporea.

Le pratiche yoga (e le pratiche di consapevolezza in generale) ci insegnano ad essere nel corpo. Che non è un limite bensì una ricchezza, che ci permette di allargare la nostra capacità di visione e percezione.

Attraverso l’esperienza corporea impariamo a sentire la pienezza, la sensazione profonda di esistere, che ci accompagna negli alti e bassi della vita.

Quando siamo nel corpo, siamo nel momento presente, finalmente liberi da paure e rimpianti. Nel corpo possiamo arrivare a percepire un sentimento di completezza e imparare a godere del momento presente; qualsiasi cosa si possegga e qualsiasi stato d’animo si abbia.

La pratica di Santosha inizia proprio da qui.

Si inizia con lo sperimentare momenti di pienezza nella pratica che, con impegno e costanza, potranno diventare una vera e propria attitudine, migliorando in modo consistente il modo in cui affrontiamo le difficoltà e il nostro rapporto con noi stessi e con gli altri.

È questo il primo passo per rendere la nostra vita piena e soddisfacente. E finalmente essere felici!

 
 

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