Lo Yoga è una scienza, un’arte antichissima di conoscenza, tramandata oralmente e in segreto da Maestro a discepolo per lungo tempo. E' una delle sei darshana (scuole filosofiche indiane di interpretazione dei Veda, le più antiche scritture sacre dell' Induismo).
Il testo in cui per la prima volta si trova una vera e propria definizione del temine “yoga”, e le indicazioni per praticarlo, è rappresentato dagli Yoga Sutra, opera fortemente influenzata dalla filosofia Samchya e la cui datazione risulta essere assai incerta (collocabile tra il II sec. AC e il V sec. DC).
L'opera è attribuita a un certo Patanjali, un personaggio leggendario, una sorta di Omero indiano. Attraverso 195 sutra (सूत्र = letteralmente «filo» traducibile con «aforisma») divisi in 4 pada (पद = «piede», capitolo, sezione), l’autore mostra una via mediante la quale ogni individuo può evolversi e vivere in armonia con sé stesso per mezzo dello yoga.
Gli Yoga Sutra sono la principale base teorica e spirituale di una lunghissima tradizione di pratiche filosofiche indicate con il termine “yoga”, e costituiscono il fondamento dello Yoga Classico (Raja Yoga). Ovviamente sono scritti in sanscrito, lingua notoriamente complessa le cui parole cambiano significato a seconda della posizione nella quale sono collocate in una frase e dei termini a cui sono collegate. Nel nostro caso poi, la situazione si fa ancora più complicata, perché non esiste nell'Occidente moderno nessuna arte paragonabile allo yoga; cosa che impedisce una traduzione perfetta e univoca dei termini tecnici.
Gli Yoga Sutra sono insomma un testo molto ermetico, la cui traduzione letterale risulta pressoché incomprensibile, senza la consultazione di commentari. Studiarli a fondo è però estremamente importante per comprendere le origini dello yoga e il suo significato; ma anche per capire meglio noi stessi. Perché nella loro enigmaticità i Sutra lasciano ampio spazio alla nostra comprensione, divenendo uno strumento di lavoro su noi stessi.
Il testo di Patanjali a un primo approccio può dare l’idea di un manuale, magari molto sintetico e un po contorto, ma non propone una verità uniformemente valida per tutti. Non vi si illustra un sistema che è sufficiente adottare per trovare ciò che si cerca.
Basta confrontare le interpretazioni date dai vari autori dei molti commentari a disposizione, per rendersi conto che i Sutra si prestano a molte differenti interpretazioni, e che ogni concetto espresso può assumere molteplici significati.
Bisogna allora approfondire, per capire che gli Yoga Sutra sono piuttosto un testo aperto che rimanda continuamente a noi stessi: ognuno può trovarci la propria verità. Una sorta di specchio, un invito a interrogarci e a trovare risposte.
Patanjali insomma, in conformità con la più antica e autentica tradizione, non detta precetti assoluti, ma propone di seguire la via dell’esperienza.
Lo yoga, che nasce dal bisogno fondamentale dell'uomo di comprendere la propria esistenza e di liberarla dalla sofferenza, è definito da Patanjali nel secondo sutra: "citta vṛtti nirodhaḥ”( चित्त वृत्ति निरोध ) tradotto per lo più con "cessazione delle fluttuazioni della mente".
Quando la mente (चित्त = citta) è calma, il praticante si trova in uno stato di yoga. Quando il praticante riesce a vivere nel momento presente sperimentandolo a pieno, lì cessano i pensieri, cessano le preoccupazioni, cessa lo stress e l’angoscia, cessano le fluttuazioni (वृत्ति = vrtti), cessa la sofferenza e si è quindi in uno stato totale di yoga.
Lo yoga è dunque prima di tutto uno stato, un’esperienza; lo yoga non si fa, ma si vive.
I Sutra di Patanjali ci accompagnano progressivamente sulla via che conduce a questa esperienza attraverso il risveglio e l’affinamento della nostra consapevolezza, al fine di renderci individui coscienti, responsabili, liberi.
Questo percorso verso la consapevolezza è descritto da Patanjali nel secondo capitolo dell’Opera, il Sadhanapada. Il termine Sadhana (skt. साधना) proviene dalla radice sadh, ed è una parola sanscrita che significa metodo, sistema e costituisce l’insieme di pratiche che hanno come fine ultimo la realizzazione spirituale.
Nel Sadhanapada, Patanjali indica all’aspirante yogi una via di trasformazione attraverso l' Ashtanga Yoga (अष्ट “ashta” = otto, अङ्ग “anga” = rami, membra).
L’Ashtanga Yoga di Patanjali, di cui parleremo in questo articolo, non va confuso con l’Ashtanga Vinyasa Yoga, che indica una pratica fisica codificata e resa popolare dal Maestro Pattabhi Jois (1915-2009) a Mysore, nell’India meridionale, in epoca ben più recente.
Conoscere questi otto anga ci permette di comprendere che la pratica fisica (asana), anche se fondamentale, è solo un aspetto della complessa filosofia di vita che lo yoga rappresenta.
Li tratterò qui in modo molto sintetico poiché ognuno merita di essere approfondito ed esaminato singolarmente, come faremo successivamente con capitoli appositamente dedicati.
I primi due, Yama e Niyama, sono gli anga direttamente collegati alla nostra vita sociale e alle nostre difficoltà di vivere. Spesso interpretati come una serie di comandamenti, sono in realtà qualità che già ci appartengono, e che manifestiamo quando siamo connessi alla nostra vera natura.
1) Yama: il rapporto con gli altri
- Ahimsa (skt. अहिंसा) - non violenza, non imposizione della propria opinione, rispetto del punto di vista di ciascuno, non causare sofferenza.
- Satya (skt. सत्य) - verità, autenticità, essere se stessi.
- Asteya (skt. अस्तेय) - non rubare, onestà, rinuncia al desiderio di appropriarsi dei beni (ma anche dei meriti) altrui.
- Brahmacarya (skt. ब्रह्मचर्य) - attitudine di moderazione, sobrietà.
- Aparigraha (skt. अपरिग्रह) - non avidità, non accumulare, non sprecare, condividere.
2) Niyama: il rapporto con noi stessi
- Saucha (skt. शौच) - purezza, capacità di oggettività, essere in accordo con se stessi.
- Santosha (skt. संतोष) - contentezza, apprezzare quello che si ha.
- Tapas (skt. तपस्) - volontà, impegno, disciplina, intensità della motivazione.
- Svadhyaya (skt. स्वाध्याय) - studio anche e soprattutto di se stessi, conoscenza delle proprie competenze, caratteristiche, emozioni.
- Ishvara Pranidhana (skt. ईश्वरप्रणिधान ) - fede, umiltà, fiducia, deposizione dell’ego.
La pratica di Yama e Niyama è spesso il punto di partenza che ci mette sulla via della ricerca dell’azione attraverso i successivi tre anga: Asana, Pranayama e Pratyahara, che costituiscono la parte “tecnica” dell’Ashtanga Yoga di Patanjali.
3) Asana
Coscienza profonda e totale del corpo, necessaria alla stabilità mentale.
Negli Yoga Sutra non troviamo descrizioni di posizioni, Patanjali si limita a descrivere le qualità che l' asana deve avere per essere considerato tale: asana deve essere sthira ("stabile") e sukham (“comodo").
4) Pranayama Clicca qui per saperne di più
Controllo cosciente del respiro e dell'energia vitale (Prana)
5) Pratyahara
Interiorizzazione dei sensi che, dal mondo esteriore vengono diretti nel mondo interiore. È la conseguenza di Asana e Pranayama.
La coscienza profonda del corpo e della sua energia, la capacità di spostare la nostra attenzione dal mondo esteriore al mondo interiore, porta all’esperienza di una stato di coscienza amplificato. Questo ci permette di sperimentare la completa padronanza della concentrazione mentale (Samyama) descritta dagli ultimi tre anga, dei quali Patanjali parla in modo più dettagliato nel terzo capitolo dell'opera, il Vibhūti Pāda.
6) Dharana
Concentrazione interiore.
7) Dhyana
Meditazione, stato di coscienza senza l’intervento dei meccanismi del mentale.
8) Samadhi
È uno stato trascendente che va oltre la meditazione, unione del sé individuale con il sé universale, obiettivo ultimo dello yogi.
Il sistema dell’Ashtanga Yoga di Patanjali non è da leggersi come una scala. Gli anga non costituiscono scalini separati che si superano nel procedere verso un obiettivo, ma si compenetrano e si fondono tra loro nella pratica e nella vita.
Yama e Niyama sono gli anga legati al nostro vivere nei rapporti con gli altri e con noi stessi. La loro pratica è spesso il punto di partenza che ci mette sulla via della ricerca dell’azione attraverso Asana e Pranayama. Ne consegue Pratyahara, da cui è possibile accedere al Samyama, che comprende Dharana, Dhyana, Samadhi.
Quando facciamo esperienza di questo stato di coscienza tutti gli anga ne traggono beneficio!
Si tratta dunque piuttosto di un sistema “circolare”, che ci riporta a ogni anga in modo più profondo e con un maggiore grado di consapevolezza.
Lo stato di coscienza si può trovare sia nella pratica fisica che nella pratica della concentrazione mentale, ed entrambi gli aspetti si riflettono nella nostra vita, nelle nostre relazioni con gli altri (Yama) e con noi stessi (Niyama).
Allora si sperimenta lo yoga come stato permanente e spontaneo nel quale si vive come esseri veri, non violenti, coscienti e quindi liberi.
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